Islam ed altre religioni

L’ATTEGGIAMENTO DEI SUFI NEI CONFRONTI DELLE ALTRE RELIGIONI  di Gabriele Mandel

 

Anzitutto, per il Corano, la religiosità non consiste soltanto nel seguire un ritualismo, e basta: (2°, 177) Devozione non è volgere i vostri visi a Oriente o a Occidente. Devoto è chi crede in Dio, nel Giorno ultimo, negli angeli, nel Libro e nei profeti; chi dà del proprio, per amore di Lui, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, ai mendicanti e per gli accollati; chi recita la Preghiera e versa la zakât [elemosina legale]. E quelli che mantengono gli impegni quando ne hanno presi, quelli che sono pazienti nelle avversità, nella malattia, nel momento dello sconforto. Ecco i veritieri, ecco i devoti.

Poi chiaramente il Corano indica quale deve essere l’atteggiamento del musulmano nei confronti delle altre religioni rivelate:

(2°, 62) Certo: quelli che hanno creduto, quelli che praticano l’ebraismo, i cristiani, i sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compie opera buona, avranno la loro ricompensa presso il Signore. Per loro nessun timore, e non saranno afflitti.

(2°, 136) Dite: “Crediamo in Dio, in ciò che ci ha rivelato, e in ciò che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, e in quel che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal Signore: non facciamo nessuna differenza fra di loro. A Lui noi siamo sottomessi”.

(5°, 68-69) Di’: “Genti del Libro, siete sul nulla finché non vi conformate alla Thora e al Vangelo e a ciò che è sceso su di voi da parte del Signore”. Certo, ciò che è sceso su di te da parte del Signore farà crescere in molti di loro la ribellione e la miscredenza. Non affliggerti per i miscredenti. Certo, quelli che credono, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani, chiunque crede in Dio, nel Giorno ultimo e compie opera buona, nessun timore su di loro, e non verranno afflitti.

(4°, 163-165) Ti abbiamo fatto rivelazione come l’abbiamo fatta a Noè e ai profeti dopo di lui; e abbiamo fatto rivelazione ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle tribù, a Gesù, a Giona, ad Aronne e a Salomone, e abbiamo dato lo Zabûr a Davide. E vi sono dei messaggeri di cui ti abbiamo raccontato precedentemente, e messaggeri di cui non ti abbiamo raccontato – e Dio ha parlato a Mosé  –, messaggeri annunciatori di buona novella o avverti tori, affinché dopo la venuta dei messaggeri le genti non avessero più argomenti contro Dio. Dio è Potente [âlcazîzu] e Saggio [âlHakîmu].

            Sottolineo il passo coranico appena citato: E vi sono dei messaggeri di cui ti abbiamo raccontato precedentemente, e messaggeri di cui non ti abbiamo raccontato. Il Corano cita venticinque Profeti; ma secondo la tradizione – come si legge nel Fihrist di Îbn âlNadîm (?-995) – i Profeti che predicarono sulla terra sarebbero stati 124.000, e i Libri sacri rivelati ben centoquattro. Ecco quindi perché, presso i sufi del Centroasia, sono riconosciuti come profeti, ad esempio, il Buddha, il Thirtankara Jàina, Guru Nanaq, ciascuno portatore del suo Libro sacro. In effetti, il Corano dice chiaramente:

(45°, 27-28) Il Regno dei cieli e della Terra è di Dio. Il Giorno in cui sorgerà l’Ora, in quel Giorno gli impostori saranno perduti. Vedrai ogni comunità genuflessa. Ogni comunità sarà convocata davanti al suo Libro: “Oggi sarete retribuiti per ciò che avete fatto”. Per le azioni compiute, quindi, non per la religione cui si appartiene.

In definitiva, è Dio che crea l’umanità suddivisa in molte comunità religiose: (11°, 118) Se il Signore avesse voluto, avrebbe fatto delle genti una sola comunità. (16°, 93) Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi, certo, una Ûmmat unica. Egli lascia che si perda chi Egli vuole e guida chi Egli vuole, e verrete, certo, interrogati su ciò che facevate.

La varietà di comunità serve dunque perché esse si confrontino e nessuna prevarichi. (5°, 48) Gareggiate dunque nelle buone opere. Tutti ritornerete a Dio, che allora vi informerà su ciò su cui divergete.

            Queste comunità spesso hanno disatteso l’unità universale che è in definitiva l’unità dell’Uno in assoluto, Dio. Sarebbe necessario oggi recuperare la dimensione religiosa delle varie culture umane, e spiegare alle varie culture religiose che esse partono tutte da un unico ceppo; sono tutte frammenti di un unico grande specchio, e come ci si può specchiare nello specchio intatto, così ci si specchia (parzialmente) in ogni suo frammento.

Ma continuiamo a leggere che cosa dice il Corano a proposito della tolleranza interreligiosa:

(9°, 6) E se un politeista ti chiede asilo concedigli asilo; ascolterà la parola di Dio. Poi fallo giungere in luogo sicuro. Ciò perché è gente ignorante.

(2°, 256) Nessuna costrizione nella religione; la buona direzione si distingue dall’errore. Dunque: chi rinnega il Ribelle e crede in Dio, afferra il legame più solido, che non si spezza. E Dio è Colui che ascolta [âlSamycu], Colui che sa [âlcAlymu].

(18°, 29) Di’: “La verità è del Signore”. Creda chi vuole, non creda chi non vuole.

(23°, 62) Noi non imponiamo a nessuna anima se non secondo la sua capacità. Vi è presso di noi un Libro che dice la Verità, e non verranno lesi.

Junayd – Maestro sufi del IX secolo – disse: “Il colore dell’acqua è il colore del suo recipiente, intendendo che tutte le religioni sono eguali; differiscono per ambiente, nome e ritualistica, ma non possono differire nella sostanza. La divinità, assoluta, non può essere contenuta in una cosa giacché è l’origine – e l’essenza – di tutte le cose, e quindi anche di tutte le religioni. Più ci si avvicina a Dio, e più si capisce che tutte le religioni sono tentativi per avvicinarLo”.

E Jalâl âlDîn Rûmî scrisse la celebre quartina: “Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni./ Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni!/ La nostra non è la casa della disperazione,/ e anche se hai tradito cento volte una promessa…vieni”.

Tuttavia, questo punto di vista potrebbe anche essere definito “d’opportunità” dai soliti oppositori del sufismo, ignoranti o in malafede che siano, visto che lo espone un sufi attivo alle soglie del Duemila, e per di più in Italia. Sentiamo allora l’opinione di grandi Maestri del sufismo lungo tutto l’arco dei secoli, e in ambiente del tutto musulmano.

            Mansur âlHallâj (858-922) scrisse: “Ho riflettuto sulle denominazioni confessionali, ho fatto uno sforzo per capirle, ed ho visto che sono un Principio unico dalle molte ramificazioni. Non chiedere dunque ad un essere umano d’adottare questa o quella religione, perché s’allontanerebbe dal Principio fondamentale: cerchi il Principio stesso, Colui in cui si elucidano tutte le grandezze e tutti i significati; ed egli allora capirà”.

            Una quartina dell’eminente matematico, astronomo e poeta iraniano cOmar Khayyam (1048-1131): “La distanza che separa l’incredulità dalla fede è un soffio;/ quella che separa il dubbio dalla certezza è del pari un soffio;/ passiamo dunque serenamente questo prezioso spazio di un soffio/ perché anche la nostra vita è separata dalla morte da un soffio”.

Îbn âlcArabî (1165-1240), nella Saggezza dei profeti affermò: “Colui che si fissa in una religione ignora di conseguenza la verità intrinseca delle altre, allo stesso modo che la sua credenza in Dio implica una negazione d’ogni altra forma di credenza. Se conoscesse il senso delle parole di Junayd: ‘Il colore dell’acqua è il colore del suo recipiente’ ammetterebbe la validità di tutte le credenze, e riconoscerebbe Dio in ogni forma e in ogni oggetto di fede. Dipende dal fatto che egli non ha la conoscenza di Dio, ma fonda il suo concetto unicamente su una sua opinione, come dice Dio nel Corano: Io Mi conformo all’opinione che il Mio servo si è fatta di Me. Ciò significa: Dio si manifesta a colui che l’adora nella forma della sua religione, sia quando generalizza, sia quando distingue. La divinità conforme a una religione è quella che può essere definita, e che permette di contenere nel cuore un’idea di Dio, sempre come disse Dio: Né i Miei cieli né la Mia terra possono contenerMi, ma Mi contiene il cuore del Mio servo fedele. In effetti, la divinità assoluta non può essere contenuta in nessuna cosa, poiché è l’Essenza stessa delle cose e la Sua propria essenza”.

            cAbd âlKarîm âlJîlî (1365-1428), nel suo âlInsân âlKâmil (L’uomo perfetto), scrisse: “Sappi che l’Essenza di Dio Supremo è il mistero dell’Unità espresso da ogni simbolo, senza che Lo possa esprimere sotto molti altri rapporti. Non si può dunque concepire questa Essenza con una idea razionale, come non la si capisce con una allusione convenzionale; giacché si capisce una cosa soltanto in virtù d’una relazione, che le assegna una posizione; o con una negazione, e dunque il suo contrario. Orbene: non v’è in tutto ciò che esiste relazione alcuna che situi l’Essenza, né assegnazione alcuna che Le si applichi, e quindi nulla che possa negarLa e nulla che Le sia contrario. Essa è per qualsiasi linguaggio come se non esistesse, e sotto questo rapporto sfugge all’intendimento umano. Colui che parla diventa muto davanti all’Essenza divina, e colui che si muove diventa immobile; colui che vede è abbagliato. Essa è troppo sublime perché possa essere concepita dalle intelligenze […]. È troppo eletta perché possa venir colta dai pensieri. Il suo fondo primordiale non è toccato da nessuna sentenza del sapere, né alcun silenzio La può tacere; nessun limite, per quanto sottile e incommensurabile sia, mai sarà in grado di abbracciare il Senza Limite”.

            Hâtif Îsfahâ, Maestro del XVIII secolo, nel suo Diwân insegnava: “Per quelli che possiedono la conoscenza, e che sono detti a volte ‘ebbri’ e altre volte ‘lucidi’, il vino, la festa, il coppiere e il menestrello, i re magi, il monastero, lo shahed e lo zonnar, tutte queste cose designano – in effetti – segreti nascosti che vengono espressi con tali simboli. Se conoscerai il significato reale di questi simboli, saprai che l’essenza di tali misteri è che Egli è Uno, Unico, che nulla esiste tranne Lui, e che non v’è altra divinità tranne Dio”.

D’altro canto, facendo naturalmente inorridire i teologi più fondamentalisti, già nel XI secolo Sanâcî osò dire: “L’empietà e la fede corrono entrambe sul cammino di Dio”.

L’emiro cAbd âlKader (o cAbd âlQâdir âlHajj; 1807-1883), re d’Algeria, fu iniziato giovane alla Qadiriyya. Visse un momento politico resistendo all’invasione francese (1830) e vincendo a Macta (1835); dopo varie battaglie con alterne vicende, fu riconosciuto dalla Francia quale capo di uno stato algerino dell’interno (1837). Dal 1839 al 1843 combatté la Francia – sempre con quella lealtà cavalleresca che gli valse il plauso delle potenze occidentali – e infine si rifugiò in Marocco. Tornato vittorioso in Algeria nel 1846, gli fu prospettato un accordo dal duca d’Aumale, il quale tuttavia, quando l’emiro si presentò per la firma del trattato, lo fece arrestare (1847) e deportare in Francia. Per intervento degli stati musulmani fu liberato e mandato in Turchia (a Bursa), avendo il governo turco reclamato imperiosamente la sua liberazione. Qui entrò nella Confraternita Jerrahi-Halveti, e quando si trasferì poi a Damasco divenne il Vicario generale della confraternita in Siria, si occupò solo di sufismo e scrisse testi di profonda spiritualità. Durante i torbidi di Damasco (1860) si prodigò per la salvezza del console francese e dei residenti europei e cristiani. Durante la guerra 1870-1871 mantenne la parola data ai francesi al momento della sua liberazione, e non tornò più sulla scena politica, pur se gli era stato offerto un comando.

Nel suo Mawqif (246), commentando il versetto coranico: E dite: “Crediamo in ciò che è stato fatto scendere a noi e a ciò che è stato fatto scendere a voi; il Nostro [Dio] e il Vostro [Dio] sono uno. A Lui noi siamo sottomessi (muslimûn) (Corano, 29°, 46), scrive: “Ciò che qui diremo rientra nel campo della sottile allusione (îshâra) e non dell’esegesi (tafsîr) propriamente detta. Dio prescrive ai seguaci di Maometto di dire a tutte le comunità appartenenti alle ‘Genti del Libro’– cristiani, ebrei, sabei e altri: Noi crediamo in ciò che ci è stato rivelato, cioè in ciò che si è epifanizzato a noi, ossia il Dio esente da qualsiasi limitazione, trascendente nella sua immanenza stessa; più ancora: trascendente nella sua trascendenza stessa; e che in tutto ciò resta immanente. E in ciò che è stato rivelato a voi, vale a dire in ciò che si è epifanizzato a voi nelle forme condizionate, immanenti e limitate.

“È Lui che le Sue epifanie manifestano, a voi come a noi. I diversi termini che esprimono la ‘discesa’ o la ‘venuta’ della rivelazione non designano altro che manifestazioni (zuhûrât) o teofanie (tajalliyat) dell’Essenza, del Suo verbo e di tale o talaltro Suo attributo. Dio non è al di sopra di tutti, il che implicherebbe che bisogna ‘salire’ verso di Lui. L’Essenza divina, il Suo verbo e i suoi attributi non sono localizzabili in una direzione particolare da dove ‘scenderebbero’ verso di noi. La ‘discesa’ e gli altri termini di questo genere hanno senso soltanto in rapporto a colui che riceve la teofania e al suo grado spirituale.

“Questo rango giustifica l’espressione di ‘discesa’ o le espressioni analoghe. Giacché il rango della creatura è basso e inferiore, mentre quello di Dio è elevato e sublime. Non fosse stato così, non sarebbe questione di ‘scendere’, o di ‘far discendere’ [la Rivelazione], e non si parlerebbe di ‘salita’ o di ‘ascesa’, di ‘abbassare’ o di ‘avvicinare’. In questo versetto è usata la forma passiva [nella quale il soggetto reale dell’azione espressa dal verbo resta celato], poiché la teofania di cui qui si tratta si produce partendo dal grado che totalizza tutti i Nomi Divini.

“Di questi nomi, partendo da questo grado, si epifanizzano solamente il nome della divinità (ossia il nome di Dio), il nome âlRabbu (‘il Signore’) e il nome âlRahmânu (‘il Misericordioso’) […]. Dio ha detto: E il tuo Signore verrà (Corano, 89° 22); e, parimenti, in una tradizione profetica troviamo: ‘Il nostro Signore scende...’. Dio ancora ha detto: Tranne se Dio viene (Corano, 2° 210), ecc. È impossibile che uno dei gradi divini si epifanizzi con la totalità dei Nomi che racchiude. Egli manifesta perpetuamente certi nomi e ne nasconde altri. Cerca di capire! Il nostro Dio e il Dio di tutte le comunità opposte alla nostra sono in verità e realmente un Dio unico, conformemente a ciò che Egli ha detto in numerosi versetti: Il vostro Dio è un Dio unico (Corano 2° 163; 16° 22; ecc.).

“Egli ha anche detto: Non vi è altra divinità che Dio (3°, 62). È così nonostante la diversità delle Sue teofanie, il loro carattere assoluto o limitato, trascendente o immanente, e la varietà delle Sue manifestazioni. Egli si è manifestato ai seguaci di Maometto di là da ogni forma pur manifestandosi in ogni forma, senza che ciò comporti incarnazione, unione o mescolanza. Ai cristiani, si è manifestato nella persona del Cristo e dei monaci, come Egli dice nel Libro [versetto 31, sura 9°]. Agli ebrei Egli si è manifestato sotto la forma di cUzayr e dei rabbi; ai mazdei in forma di fuoco, ed ai dualisti nella luce e nelle tenebre. Egli si è manifestato ad ogni adoratore di una qualsiasi cosa – pietra, albero o animale… – sotto la forma di quella cosa: giacché nessun adoratore di una cosa limitata l’adora per se stessa. Ciò che egli adora è l’epifania in questa forma degli attributi del Dio vero – gloria a Lui! – tale epifania rappresentando, per ogni forma, l’aspetto divino che propriamente le corrisponde. Ma [di là da questa diversità delle forme teofaniche], ciò che tutti gli adoratori adorano è uno, poiché il loro errore sta solo nel fatto di determinarlo limitativamente […].

“Ma Egli Si rivela ad ogni essere dotato di intelligenza in proporzione alla sua intelligenza. E Dio abbraccia tutte le cose, Egli è il Sapiente per eccellenza (Corano, 2° 115). Vi è dunque in realtà unanimità delle religioni quanto all’oggetto dell’adorazione – questa adorazione è connaturale a tutte le creature, anche se poche fra loro se ne rendono conto – almeno in quanto che essa è incondizionata, e non quando la si considera in rapporto alla diversità delle sue determinazioni. E noi musulmani, come Egli ci ha prescritto, siamo sottomessi al Dio universale e crediamo in Lui. Quelli che sono votati al castigo, lo sono solamente perché Lo adorano sotto una forma sensibile che esclude qualsiasi altra. Soltanto la parte più evoluta della comunità musulmana conosce il significato di quanto diciamo, escluse le altre comunità.

“Non c’è al mondo un solo essere – sia di quelli che chiamano ‘naturalisti’, ‘materialisti’ o altro – che sia veramente ateo. Se quanto egli dice ti fa pensare il contrario, è il tuo modo di interpretarlo che è sbagliato. L’irreligiosità (kufr) esiste nell’universo soltanto in modo relativo. Se riesci a capire, vedrai che vi è in ciò un punto sottile: vale a dire che chiunque non conosce Dio con quella vera conoscenza, in realtà adora soltanto un signore condizionato dal credo che egli ha riguardo a lui, e che non può quindi rivelarsi a lui nella forma del suo credo. Ma il vero Adorato è di là da tutti i ‘signori’!”

 

Possiamo allora riconoscere quanto segue:

In ogni RELIGIONE v’è un contenuto e una forma.

Il contenuto si riferisce allo spirito, determinato sia dalla comunicazione con Dio, sia dal sentire Dio in sé (soprattutto quando si è su una Via mistica, libera e sincera).

La forma è determinata dalla Lettera, e a sua volta stabilisce la Legge (canone, regole, prescrizioni, e per mantenere prescrizioni e regole “costringe”; e in casi di assolutismo fanatico può anche giungere a uccidere chi non osserva la Legge). Da questo stato di cose vien generato un potere; spesso, anzi quasi ineluttabilmente, il “potere” corrompe, ed è precipuo del potere infatti spingere a ottenerlo, a esercitarlo, e spesso a mantenerlo anche ricorrendo a mezzi drastici.

            È chiaro quindi che strumentalizzare la Legge significa in ultima analisi anche uccidere. Infatti l’integralismo è l’ipertrofia della Legge a detrimento dello Spirito.

Ne consegue che l’integralismo può essere in ciascuno di noi, dal momento che la Verità assoluta non appartiene all’umanità, e facilmente ognuno di noi è catturato dalla “propria” Verità. Peggio ancora quando la vuole imporre, sia per ignoranza, sia per potere, sia per interessi egoistici.

            Da ciò l’assioma: nella Religione, se tu sei buono vedi il lato buono, e se tu sei cattivo vedi il lato cattivo. L’equilibrio implica il dialogo con il prossimo, superando le differenze: noi saremo tutti eguali quando avremo accettato le differenze degli altri. Ossia: io sono io perché tu sei tu, e tu sei tu perché io sono io.

            Ecco perché il sufi ha capito la grande differenza che sussiste tra FEDE e RELIGIONE. La prima è una pulsione connaturata sin dalla nascita in ogni essere umano, essendo parte del terzo livello del suo inconscio (Arte, Fede, Civismo), e la seconda è la burocratizzazione della Fede, necessaria per avere regole di comportamento, nozioni relative sia al vivere civile che all’espressione di questa forte spinta pulsionale.

 

            In margine all’atteggiamento di rispetto che il sufi dovrebbe avere nei confronti delle altre religioni, cade bene, qui, parlare brevemente di una credenza particolare: la reincarnazione; teoria che è condivisa da un terzo della popolazione mondiale, e che circa il quaranta per cento delle Confraternite condivide, o tollera pur senza condividere.

            I sufi partono dall’assunto che “L’anima esiste, ed è eterna”.

Nel mondo fenomenico essa è incarnata in un corpo, dal quale si scinde con la morte. E dopo la morte, dove va? Per alcune religioni, a seguito di un giudizio finale, andrà in paradiso, o in purgatorio, o all’inferno. Per altre si reincarna (“la resurrezione dei morti”) alla fine dei tempi e dimorerà o nel paradiso terrestre o nell’inferno che ha meritato con le sue azioni malvagie. Per altre religioni ancora, in particolare Hinduismo, Buddhismo, Giainismo, l’anima trasmigra oppure si reincarna, in una serie di rivisitazioni terrene che la perfezionano, o la depurano dalle negatività terrene, affinché possa tornare pura nell’oceano infinito che è Dio, o nel nulla infinito che è il Senza Nome.

Abbiamo visto come per l’Îslâm il concetto base è la resurrezione finale dei morti, o il Giudizio finale che determinerà premi o castighi. Senza nulla togliere a questa asserzione di fede, per una parte delle Confraternite sufi tra la morte terrena e quel momento l’anima ritorna sulla terra nel tentativo di completare il cammino purificandosi dalle azioni negative commesse; si accetta quindi il concetto di reincarnazione (solamente da un essere umano che è morto in un essere umano che nasce, per il fatto che solo l’essere umano è responsabile delle sue scelte, delle sue azioni, e possiede il libero arbitrio).

Si veda per questo il Maestro turco transoxiano cAzîz âlDîn Nasafî (XIII secolo), nel suo Kitâb âlÎnsân âlKâmil (Il libro dell’Uomo perfetto), dove afferma a questo proposito: “È una dottrina immemorabile, che ha corso da millenni e millenni fra gli uomini. I tre quarti degli abitanti di questo mondo, anzi: ancor più, sono stati e sono impegnati in questa via […]. Per gli adepti della reincarnazione il luogo del ritorno è quello stesso in cui, avendo soggiornato in origine, l’anima aspira a tornare […]; e questo luogo è l’Essere Necessario, Dio […]. Per gli adepti della reincarnazione tutto ciò che appartiene al mondo sublunare – ossia il mondo della generazione, della corruzione, delle nature e degli appetiti – costituisce l’Inferno e gli abissi dell’Inferno”.